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L’Antico Testamento nel mirino

 

Hai certamente sentito parlare della Bibbia come di un best seller, un libro che vanta una posizione di tutto rispetto nella classifica delle vendite anche ai nostri giorni, e forse sai pure che questo best seller può considerarsi un long seller, un classico evergreen, che ha resistito al trascorrere dei secoli e al cambiamento delle mode e dei gusti del pubblico.

 

Se sei un credente nato di nuovo, attraverso le Sue pagine hai scoperto in Dio il tuo Padre Celeste e, in Gesù, il tuo Salvatore, questo Libro “vive” accanto a te e diventa sempre più parte di te orientando le tue scelte nella quotidianità.

 

Potrebbe già esserti capitato, però, di confrontarti con un amico o un insegnante che mette in discussione o nega su vari fronti l’ispirazione divina e l’autorevolezza morale di questo Libro, con argomentazioni alle quali fai fatica a trovare una risposta. Vorremmo dunque provare a darti alcuni spunti in merito agli attacchi che più frequentemente sono sferrati contro la Bibbia dagli esponenti del cosiddetto “nuovo ateismo”. Andiamo per ordine, allora, e cominciamo dall’Antico Testamento.

 

L’Antico Testamento istiga alla violenza?

 

Nel saggio “The God Delusion”, pubblicato nel 2006 e tradotto in italiano l’anno dopo, l’etologo Richard Dawkins bolla senza riserve il Dio dell’Antico Testamento come «sanguinario e istigatore della pulizia etnica; un bullo misogino, omofobo, razzista, infanticida, genocida, figlicida, pestilenziale, megalomane, sadomasochista e maligno secondo il suo capriccio».

 

Il denominatore comune a questa sfilza di accuse è costituito dalla violenza che, secondo lo studioso, caratterizzerebbe la personalità e gli atti del Dio veterotestamentario. Questa carica di violenza sarebbe dimostrata, ad esempio, dalla severità delle pene corporali previste nella legge di Mosè per diversi reati (Levitico 24:19-20).

 

A tal proposito, però, vorremmo sottolineare che nel disegno originario di Dio per l’uomo e per la Terra non era prevista la violenza: all’uomo era affidata, per così dire, la sovrintendenza del creato, in un rapporto di armonia con il suo Creatore e con le altre creature (Genesi 1:28-30).

 

Dio, dunque, non ha voluto né tantomeno originato la violenza: basti pensare che, quando nel cuore di Caino si è insinuato l’odio che lo avrebbe portato a uccidere il fratello, Dio gli ha rivolto un appello amorevole e fermo per metterlo in guardia contro il peccato che stava per travolgere la sua mente (Genesi 4:6-7).

 

È stato dunque il peccato dell’uomo, non un «capriccio» di Dio, a introdurre la violenza nella storia, e non è un caso che, aprendoci una finestra sulla fine dei tempi, per bocca del profeta Isaia il Signore abbia prospettato proprio la restaurazione di quella pace perfetta che oggi ci sembra solo un sogno: «Il lupo abiterà con l’agnello, e il leopardo si sdraierà accanto al capretto; il vitello, il leoncello e il bestiame ingrassato staranno assieme, e un bambino li condurrà» (Isaia 11:6).

 

Veniamo ora a una delle questioni più spinose sollevate dai nuovi atei: se Dio non approva la violenza, come può aver ordinato al popolo d’Israele di sterminare ben sette popolazioni stanziate nel territorio che Israele si apprestava a occupare (Deuteronomio 7:1-2)?Quest’accusa implica almeno tre conseguenze di rilievo.

    1. Dio avrebbe pianificato una vera e propria pulizia etnica, volta all’eliminazione di popoli che appartenevano a una razza diversa da quella ebraica. A questo riguardo, però, occorre precisare che la punizione divina sui Cananei non viene mai ricondotta, nella Bibbia, alla loro identità razziale, ma è piuttosto dovuta alla malvagità delle loro azioni e alla loro tenace dedizione a pratiche intollerabili agli occhi del Signore fra cui, come vedremo, quella di sacrificare i figli alle divinità (Deuteronomio 12:29-31). È significativo, per giunta, che dal castigo siano stati risparmiati, insieme con le proprie famiglie, due Cananei che avevano agito con generosità nei confronti degli Israeliti (Giosuè 6:24-25 e Giudici 1:22-25); una di loro, la straniera Raab, compare addirittura nella lista degli antenati di Gesù Cristo (Matteo 1:5)!
    2. Stabilendo la distruzione dei Cananei, Dio si sarebbe reso colpevole del massacro di tanti bambini innocenti. A quest’obiezione, che certo tocca nel vivo la nostra sensibilità, potremmo rispondere che proprio la consuetudine del sacrificio dei figli agli dei pagani è elencata, in Deuteronomio 18:10-12, fra le «pratiche abominevoli» che hanno attirato il giudizio di Dio sugli abitanti di Canaan. La punizione divina, dunque, ha messo un argine a quest’usanza, vietata categoricamente dal Signore agli Israeliti.
    3. Imponendo lo sterminio dei Cananei, il Dio dell’Antico Testamento avrebbe creato una sorta di precedente che, nel corso della storia, ha giustificato e continua a giustificare azioni violente perpetrate in nome della religione, dalle crociate alla caccia alle streghe fino agli attentati terroristici dei nostri giorni. In realtà, però, l’ordine impartito da Dio a Israele va inteso come un unicum, un caso isolato e irripetibile nel contesto di una vicenda storica d’eccezione: quella del popolo scelto da Dio – prima dell’era della grazia inaugurata dalla venuta di Cristo e dal Suo sacrificio per tutti gli uomini – come Suo rappresentante e testimone della Sua legge e della Sua giustizia. Anche le dimensioni della conquista di Canaan da parte degli Israeliti, del resto, sono state accortamente calibrate da Dio: non si sarebbe trattato di un’espansione indiscriminata e potenzialmente infinita, come quella dei grandi imperi dell’antichità, ma dell’acquisizione di un territorio per il quale il Signore aveva fissato dei precisi confini (Giosuè 1:3,4; Deuteronomio 11:24; Giosuè 13:1-7).

 

L’Antico Testamento promuove la schiavitù?

 

«Si consulti la Bibbia, e scoprirete che il creatore dell’universo si aspetta chiaramente da noi che possediamo degli schiavi». Ecco come si esprime l’ateo Sam Harris, che scorge un’evidente legittimazione della schiavitù in alcuni versi di Levitico (25:44-46) in cui agli Israeliti si dà il permesso di acquistare schiavi dagli stranieri e di lasciarli in eredità ai propri figli.

 

L’Antico Testamento, dunque, approverebbe in pieno una prassi contro cui, anche in tempi non troppo lontani, si sono portate avanti delle battaglie di civiltà delle quali tutti riconosciamo l’alto valore.È prioritaria, a questo punto, una precisazione di carattere lessicale: al termine ebraico ‘ebed, che potrebbe essere tradotto sia con “servo” sia con “schiavo”, non è attribuita nella lingua originale una valenza intrinsecamente negativa.

 

Una tale connotazione è insita, invece, ad esempio, nella parola italiana “schiavo”, la quale però, a ben vedere, non è adoperata con la stessa frequenza in tutte le versioni italiane della Bibbia. Infatti nella versione di Giovanni Diodati il termine “schiavo” compare solo quattro volte, nella Bibbia di Gerusalemme il vocabolo ricorre ben duecentottanta volte.

 

Considerazioni simili si potrebbero formulare anche sull’uso del termine equivalente al nostro “schiavo” nelle traduzioni in inglese o in tedesco: riguardo a quest’ultima lingua, basti pensare che nell’edizione del 1912 della Luther Bible la parola “sklave / sklavin” non è neppure presente!

 

Risulta quindi poco corretta, a livello metodologico, una critica mossa all’Antico Testamento sulla base di osservazioni che non tengono adeguatamente conto della fisionomia del testo originale.

 

Se proviamo, poi, a risalire al contesto in cui si inseriscono i versi prima menzionati, scopriamo che per varie ragioni, fra cui la necessità di saldare dei debiti, un individuo poteva essere costretto a “vendersi”, ovvero vendere il proprio lavoro, divenendo in questo senso “proprietà” dell’altro e mantenendo, comunque, la possibilità di essere riscattato (Levitico 25:39-55).

 

Mettendo a confronto il sistema sociale delineato nell’Antico Testamento con gli ordinamenti in vigore presso due società fra loro distanti nel tempo e nello spazio, quella dell’antica Roma e quella americana della prima metà dell’Ottocento, dovremo constatare che solo presso gli Ebrei agli schiavi erano garantiti diritti come quello di godere del giorno del riposo (Deuteronomio 5:13-14) e di essere rimessi in libertà nel caso in cui il padrone avesse provocato loro un danno fisico (Esodo 21:26,27).

 

Chi avesse accolto uno schiavo fuggito dal suo padrone, inoltre, era tenuto a non riconsegnarlo a quest’ultimo (Deuteronomio 23:15-16), un trattamento ben più umano rispetto a quello documentato nel Sud degli U.S.A., dove chi si fosse rifiutato di restituire al proprietario uno schiavo fuggiasco era condannato a sei mesi di prigione e a una multa di mille dollari!

 

Tirando le somme, potremmo chiederci su quale fondamento spirituale ed etico poggi la visione della schiavitù che emerge nell’Antico Testamento. Lasciamo spazio, a questo proposito, alle parole di Giobbe: «Se ho disconosciuto il diritto del mio servo e della mia serva, quando erano in lite con me, che farei quando Dio si alzasse per giudicarmi, e che risponderei quando mi esaminasse? Chi fece me nel grembo di mia madre non fece anche lui? Non ci ha formati nel grembo materno uno stesso Dio?» (Giobbe 31:13-15).

 

È il timore di Dio, quella santa riverenza nei confronti di Colui che ha dato la vita sia al padrone sia allo schiavo, a fare la differenza nel modo in cui, già nell’Antico Testamento, sono considerati e gestiti i rapporti interpersonali, anche tra individui che non sono collocati alla stessa altezza nella scala sociale. E il Nuovo Testamento continuerà a fare la differenza. Ma di questo parleremo nella prossima puntata.

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