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Femminilità tossica: la Bibbia e gli stereotipi femminili

Computer poggiato sulle gambe di una ragazza

 

Negli ultimi anni, in parallelo al dibattito sulla “mascolinità tossica”, le rivendicazioni femministe hanno posto l’attenzione sul tema, sempre più urgente, della “femminilità tossica”. L’attivista Maria Letizia Zaniboni, in un suo contributo su Eduxo, ha sottolineato che il concetto è legato a stereotipi di bellezza, di comportamento e di vita.

 

In poche parole, la femminilità tossica coinciderebbe con quella tendenza a limitare le donne all’interno di uno canone deciso dagli uomini e delimitato da una serie di regole obbligate. Le rivendicazioni femministe, al contrario, si batterebbero per favorire la liberalizzazione della donna, in qualsiasi campo, così che sia quest’ultima, in prima persona, a decidere chi essere e come esserlo.

 

La lotta inizia dal corpo

 

Uno dei campi in cui la lotta contro la “tossicità” ha trovato maggiore spazio d’affermazione è quello della gestione del corpo. Se fate una rapida ricerca su Google, uno dei primi articoli che compare, in relazione al tema, si occupa di cinque celebrità che rifiutano gli stereotipi della mascolinità tossica: la maggior parte di queste si mostra in abiti “gender neutral” o femminili.

 

Lo stesso Achille Lauro, che da anni fa discutere di sé, è considerato, per il modo in cui presenta il proprio corpo in pubblico, un’icona militante di questo rifiuto. In parallelo, anche per molte donne è il corpo lo spazio in cui affermare la propria libertà: lo slogan «il corpo è mio e lo gestisco io» ne è un chiaro esempio.

 

Se facciamo poi un giro sui social le immagini più ricorrenti, non a caso, sono quelle di ragazze nuda o seminude che si offrono alla fotocamera, a volte celando il proprio viso, in pose che permettano di apprezzarne le linee più seducenti.

 

Lo stesso si può dire dei video che ormai spopolano su Tik Tok, in cui ci si può improvvisare ballerine: è il corpo il centro della performance, e deve essere libero di esprimersi.

 

Mostrare il corpo rende davvero libere?

 

Torniamo all’articolo citato all’inizio e concentriamoci su un particolare: il tema della femminilità tossica, in quel caso, veniva affrontato in relazione a quello dell’oggettificazione, a causa della quale la donna passa dall’essere una persona (con desideri, carattere e inclinazioni irriducibili a un modello) a un oggetto inanimato, che serve solo a soddisfare qualcuno (generalmente un maschio).

 

Le rivendicazioni contemporanee, almeno nelle intenzioni, sembrerebbero quindi battersi per eliminare questa tendenza, restituendo alla donna la libertà e una personalità tridimensionale. Eppure, se diamo uno sguardo alla cultura visiva che ci offrono i mass media, la situazione non sembra essere molto diversa da prima: su Instagram e Tik Tok, come in TV, la donna non si è affrancata dall’idea di essere un corpo alla mercè dello sguardo altrui.

 

Il passato…ancora presente

 

Il tema della rappresentazione del corpo delle donne era stato già affrontato dalla scrittrice femminista Lorella Zanardo in un documentario del 2009, in cui venivano passate in rassegna una serie di scene della televisione italiana tra la fine degli anni ’90 e i primi anni Duemila.

 

L’autrice notava, lucidamente, in che modo la donna fosse stata ridotta a oggetto sessuale in favore dello sguardo maschile, di fronte al quale doveva mostrarsi sempre seducente e ammiccante. Nonostante siano passati dodici anni da quel documentario, certe immagini rimangono terribilmente attuali. Tra il modo in cui le vallette mute si esponevano sui palchi delle varie trasmissioni e certi sketch fruibili su Tik Tok la differenza la fa solo il mezzo: prima la televisione, ora i social.

 

Per non parlare dell’oggettificazione legata alla diffusione globale della pornografia.

 

Quando postiamo una foto su Instagram, quando condividiamo una storia, quando ci riprendiamo mentre ci muoviamo, ci stiamo esponendo allo sguardo di qualcun altro. La cultura visiva si fonda tutta sullo stesso principio: io, dietro uno schermo, guardo te, creator, che ti racconti su quello stesso schermo.

 

Il punto, in questo gioco pericoloso, è che veniamo guardati fintantoché risultiamo interessanti: per questo motivo, consapevolmente o meno, lavoriamo di continuo sulle cose che postiamo (e sul modo in cui, nella vita reale, ci presentiamo) in modo da riuscire a “venderci” nella maniera migliore possibile.

 

Il nostro corpo diventa così il mezzo per ottenere in cambio qualcosa: un like, un messaggio dal ragazzo che ci piace, un’occhiata che sappia farci sentire apprezzate. Non c’è niente di nuovo sotto il sole, direbbe l’Ecclesiaste: è sempre la stessa trappola della femminilità tossica, solo resa più “fashion” e moderna.

 

Una donna libera e virtuosa

 

Ritorniamo quindi al punto di partenza: se questo modo di agire ci rende oggetti, in che modo può renderci libere? Da questo rischio nascosto la Bibbia ci aveva già messe in guardia migliaia di anni fa. Anzi, è proprio in questo libro continuamente accusato di misoginia che si trova un insegnamento completamente controcorrente e moderno.

 

In Proverbi si legge che “la grazia è ingannevole e la bellezza è cosa vana; ma la donna che teme il Signore è quella che sarà lodata” (Proverbi 31:30). Il capitolo in cui si trova questo verso offre un intero ritratto di questa donna, che certamente non spicca a causa della sua bellezza ma, piuttosto, per le sue capacità: “Posa gli occhi sopra un campo, e l’acquista; con il guadagno delle sue mani pianta una vigna. Si cinge di forza i fianchi e fa robuste le sue braccia. Sente che il suo lavoro rende bene; la sua lucerna non si spegne la notte. […] Datele del frutto delle sue mani, e le opere sue la lodino alle porte della città” (Proverbi 31:16-18, 31).

 

La donna che emerge da queste righe è flessibile e versatile, e non rispecchia un solo modo di essere donna: pianta, tesse, acquista, insegna. Attira l’attenzione non per quello che mostra, ma per quello che fa, per quello che è.

 

Questa donna non è una bambola da mettere in vetrina, ma una persona che sfrutta le sue capacità per dimostrare il proprio valore. Il corpo non è ciò che la incatena, ma il mezzo per riuscire al meglio nel ruolo che le è stato affidato.

 

Essere tempio di Dio

 

Così dovrebbe essere per ciascuna di noi, soprattutto se ci dichiariamo cristiane: il nostro corpo è il tempio di Dio, e a Lui dovrebbe puntare (cfr. 1 Corinzi 6:19). Ma soprattutto, il nostro valore dovrebbe essere determinato da ciò che Dio dice di noi, e non dall’apprezzamento che qualcuno può dimostrarci su un social o mentre camminiamo per strada: Cristo è morto per renderci libere, non per incatenarci al nostro corpo.

 

Se osserviamo attentamente la cultura contemporanea, ci renderemo conto che le immagini che propone corrispondono a una visione ancora tossica della nostra femminilità. Dietro la pretesa di liberarci si nasconde la volontà mascherata di continuare a manipolare il nostro corpo, i nostri desideri e gli aspetti più intimi del nostro io. Dio, invece, ci ha offerto una prospettiva diversa e veramente libera: dallo sguardo altrui, dalla mercificazione del corpo e dall’obbligo di essere donne “tipiche”.

Rebecca Molea

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