Quando si parla di peccato originale, due immagini prendono forma nella nostra mente: Eva che morde il frutto proibito e un neonato che viene battezzato. Ma cosa è realmente il peccato originale? E cosa accadde di così grave da provocare, in quel giorno, l’esilio dei nostri progenitori dal giardino di Eden?
“Il serpente era il più astuto di tutti gli animali dei campi che Dio il Signore aveva fatti. Esso disse alla donna: «Come! Dio vi ha detto di non mangiare da nessun albero del giardino?». La donna rispose al serpente: «Del frutto degli alberi del giardino ne possiamo mangiare; ma del frutto dell’albero che è in mezzo al giardino Dio ha detto: “Non ne mangiate e non lo toccate, altrimenti morirete”». Il serpente disse alla donna: «No, non morirete affatto; ma Dio sa che nel giorno che ne mangerete, i vostri occhi si apriranno e sarete come Dio, avendo la conoscenza del bene e del male».
La donna osservò che l’albero era buono per nutrirsi, che era bello da vedere e che l’albero era desiderabile per acquistare conoscenza; prese del frutto, ne mangiò e ne diede anche a suo marito, che era con lei, ed egli ne mangiò” (Genesi 3:1-6).
Perché si dice “peccato originale”?
L’espressione “peccato originale”, non contenuta nelle Scritture, ci induce a immaginare che la colpa per l’atto di disubbidienza commesso dai nostri progenitori si tramandi di generazione in generazione, rendendoci in tal modo colpevoli fin dalla nascita di un peccato che non abbiamo commesso; la Scrittura dichiara invece che non è la colpa, ma la condanna e le conseguenze del peccato commesso da Adamo ad essersi estese a tutti i discendenti (Romani 5:18). La condanna, come leggiamo nel terzo capitolo della Genesi, è stata la morte: l’uomo perdette l’accesso all’Albero della vita che si trovava in Eden. Tuttavia anche la “natura spirituale” di Adamo ed Eva fu intaccata irrimediabilmente dal peccato, natura che trasmise ai suoi discendenti e opposta a quella che aveva ricevuto a immagine di Dio (Romani 7:18-25 / Genesi 5:1-3).
Possiamo riconoscere in noi stessi questa duplice natura: pur avendo una innata consapevolezza di ciò che è bene e ciò che è male, ultime tracce della nostra natura originaria (Romani 2:15-16), ci scopriamo incapaci di fare (sempre) il bene che vorremmo compiere, schiavi delle “passioni che si agitano nelle nostre membra” (Giacomo 4:1).
Vediamo gli effetti di questa “naturale” corruzione in noi e attorno a noi, mentre intacca la salute (del corpo, della mente e dell’anima), le relazioni, le famiglie, le nazioni. La guerra imperversa nel nostro cuore e nel cuore di tutti gli uomini, nelle famiglie, quanto tra le nazioni.
Vivete la stessa contraddizione? Tranquilli, non siete i soli. Ma se sapervi in buona compagnia non è troppo consolatorio, proviamo a capire se esiste una soluzione a questo problema millenario.
Il battesimo ci purifica dal peccato originale?
Purtroppo la risposta è no. Il battesimo, come dichiarano le Scritture, è innanzitutto la testimonianza pubblica del proprio ravvedimento e della propria esperienza di salvezza attraverso la fede nella morte e nella risurrezione di Cristo (Luca 3:3; Romani 6:4;Marco 16:16).
In entrambi i passi possiamo constatare che, alla luce della Bibbia, non ha alcun fondamento la pratica di battezzare dei neonati, semplicemente perchè non hanno nulla di cui ravvedersi, e neppure possono comprendere e credere nell’opera di Gesù. Comprendiamo altresì che non è il battesimo in sé a rappresentare una soluzione, quanto l’esperienza spirituale che esso rappresenta. Solo coloro che credono con tutto il loro cuore che Gesù è morto per il perdono dei loro peccati e risuscitato per renderli giusti, possono finalmente trovare una soluzione al dominio incontrastato del peccato nella loro vita.
Rigenerazione: l’esperienza di cui hai bisogno.
Nei versetti commentati nei capitoli precedenti, è l’apostolo stesso a risponderci: la Rigenerazione è l’esperienza di cui abbiamo bisogno! Chi crede nella morte e nella risurrezione di Gesù, è come se fosse morto e risuscitato con lui, sperimentando la Nuova Nascita (Giovanni 3) e ricevendo di fatto una nuova natura, non più immagine ed eredità di Adamo, ma immagine ed eredità di Cristo, l’unico giusto.
Quest’ottima notizia è accompagnata da un solenne monito: come l’apostolo Paolo ci rammenta in Romani 8:12-17, la nostra nuova natura dovrà battagliare con quella vecchia e con il peccato. Riprendiamo quindi la storia dei nostri progenitori per imparare dai loro errori e per non essere ingannati a nostra volta.
Cos’era il frutto del peccato?
È poco rilevante che fosse davvero una mela, un fico o un’albicocca. Il frutto che pendeva da quell’albero era qualcosa che Dio aveva proibito di mangiare. Nell’avvertimento di Dio v’erano due importanti informazioni che l’uomo e la donna di certo recepirono, visto che non peccarono di ingenuità. Sapevano, in primo luogo, di essere liberi di scegliere, di pensare e di agire, e, in secondo luogo, che, se Dio aveva detto che sarebbero morti una volta mangiato il frutto, potevano stare certi che in un modo o nell’altro ciò sarebbe accaduto.
L’uomo (inteso come essere umano, quindi sia Adamo che Eva), benché tentato dal serpente, al quale diede una fiducia maggiore di quella riposta in Dio, peccò in maniera triplice: di incredulità, di superbia e di ribellione.
Incredulità
“No, non morirete affatto…” (Genesi 3:4)
Il serpente additò Dio come bugiardo, dichiarando che non sarebbe accaduto quanto da Dio enunciato. Nel momento in cui Eva posò lo sguardo sul frutto, ritenne le parole del serpente come veritiere. Allo stesso modo facciamo noi quando, invece di credere a ogni promessa contenuta nelle Scritture, a ogni monito e avvertimento divino, scegliamo di dare più fiducia alle circostanze, a ciò che di tangibile ci circonda. Può sembrare un’esagerazione, ma la realtà è che stiamo considerando Dio come bugiardo e indegno della nostra fiducia e quindi di fede.
Eva diede ascolto alle parole del serpente perché quest’ultimo le parlava dei privilegi che le sarebbero derivati da quel frutto che lei aveva davanti a sé, che poteva guardare e toccare.
Trascurando tutto ciò che aveva intorno: Dio aveva provveduto all’uomo non solo il necessario per la sopravvivenza, ma molto di più. Oltre a renderlo superiore a tutte le specie animali e vegetali, su cui gli aveva affidato il dominio, lo aveva creato a Sua immagine e somiglianza, non soggetto alla morte. E, come se non bastasse, Dio era presente con loro, come un padre che si prende cura dei propri figli e che desidera renderli capaci di apprezzare e gestire le ricchezze che intende loro donare.
Per quanto possiamo pensare che, se ci fossimo trovati noi al posto di Adamo ed Eva, ci saremmo comportati diversamente, non è forse vero che agiamo come loro quando distogliamo lo sguardo dalla promessa della vita eterna poggiandolo su qualcosa di effimero? I nostri progenitori peccarono in tre ambiti, gli stessi in cui potremo riconoscere di cadere noi stessi.
Superbia
“… sarete come Dio…” (Genesi 3:5)
In cosa sta la superbia se non nel fatto di volere rivestire un ruolo che non ci appartiene, di pretendere qualcosa di cui non siamo degni, che non meritiamo e che sappiamo di non poter avere? La tentazione di essere come Dio era qualcosa di davvero appetibile. Quanti giorni i nostri progenitori avevano trascorso conversando con Dio e con i Suoi angeli nel giardino? Quante cose stavano imparando riguardo al Padre e al mondo che aveva loro donato? A quanto pare, però, ciò non bastò a contrastare e vincere la tentazione di essere come Lui. Eppure il Padre aveva detto tutt’altro riguardo a quella disubbidienza. Aveva parlato loro di morte. Nondimeno la superbia ebbe la meglio. Ed è proprio ciò che accade anche a noi quando a forza pretendiamo di elevarci a un grado che non ci appartiene, quando ci riteniamo superiori persino al nostro prossimo. Ricordiamo che è scritto che “l’umiltà precede la gloria” (Proverbi 15:33) e non il contrario.
Ribellione
“La donna osservò che l’albero era buono per nutrirsi, che era bello da vedere e che l’albero era desiderabile per acquistare conoscenza; prese del frutto, ne mangiò e ne diede anche a suo marito, che era con lei, ed egli ne mangiò.” (Genesi 3:6)
Eva dapprima osservò il frutto. Nessuno la forzò a farlo. E il solo volgere lo sguardo a quel frutto era il primo accenno di incredulità verso il divieto di Dio. Poi lo esaminò, quindi si soffermò a guardarlo e a valutarlo, e, ritenendolo bello da vedere e desiderabile, lasciò entrare in lei la superbia, il desiderio di essere simile a Dio. Infine lo afferrò e lo assaggiò, offrendone anche ad Adamo e decidendo, così, di ribellarsi al comandamento.
Dopo aver deciso che Dio era bugiardo, benché senza dichiararlo in maniera esplicita, dopo aver deciso che sarebbe stata la cosa migliore essere uguali a Lui, Adamo ed Eva decisero di disubbidire, ribellandosi al monito del Padre, presero del frutto e ne mangiarono, insieme.
La ribellione è sempre qualcosa che precede l’incredulità e la superbia. Una volta che abbiamo messo a tacere la coscienza, spesso con scuse che sappiamo essere prive di fondamento e che neanche possono reggere davanti alla luce delle Scritture, decidiamo di ribellarci, confidando nell’irrilevanza del nostro gesto, che non comporterà chissà quali conseguenze, e nella convinzione che di sicuro tutto tornerà come prima. Badiamo però, come abbiamo imparato dall’apostolo Paolo, che se noi viviamo dando spazio alla Vecchia Natura, noi morremo, tornando di fatto allo stato disperato in cui ci trovavamo prima di conoscere Cristo. Ma se con perseveranza “facciamo morire” le opere della Vecchia Natura, allora noi vivremo (Romani 8:13) ottenendo, grazie a Gesù, ciò che Adamo ed Eva hanno perduto:
“Chi ha orecchi ascolti ciò che lo Spirito dice alle chiese. A chi vince io darò da mangiare dell’albero della vita, che è nel paradiso di Dio” (Apocalisse 2:7).
Raffaele Donisio