La concezione secondo cui essere una donna o un uomo comuni, che vivono una quotidianità abbastanza lineare, monotona, che non fanno nulla di straordinario, siano in qualche modo dei falliti è oggi molto diffusa. Se non emergi al di sopra degli altri non sei nessuno, sei destinato alla mediocrità e alla frustrazione.
Ora, anche se questo modo di vedere la vita avesse, e ribadiamo se, un fondo di verità, sarebbe giusto domandarsi quanto bene ci possa fare. La nostra vita non è una merce il cui valore è determinato dalle fluttuazioni del mercato, è innanzitutto un dono dei nostri genitori e, per chi ha fede, di Dio stesso.
Se credi in Dio, se hai sperimentato la verità del Vangelo, se la tua vita è fondata su Gesù ma non stai facendo nulla di straordinario agli occhi della società e questo ti scoraggia, allora significa che devi tornare a riflettere sia sul valore che la tua conversione ha per Dio, sia sul valore che il tuo servizio ha nel campo del Signore.
Il pericolo di ricordarsi solo dei grandi uomini
È interessante notare, quando si parla di conversioni, e di qualunque tipo, che di solito vengono ricordate solo quelle eclatanti, quelle che riescono, o sono riuscite nel passato, ad avere un’influenza decisiva sulla società circostante.
In altre parole, ci si preoccupa solo del cambiamento di personaggi fuori dal comune, quelli che “hanno fatto la storia”.
Anche l’ambito del cristianesimo non è esente da questi meccanismi sociali. Se facessimo una stima, attraverso la storia di tutte le confessioni cristiane, del numero delle figure carismatiche che hanno segnato in modo significativo il percorso della Chiesa rispetto ai fedeli che non hanno mai compiuto gesti eclatanti tali da poter finire sui libri degli storici, il divario sarebbe letteralmente abissale.
Pensiamo solamente a quante volte abbiamo sentito parlare dell’esperienza di conversione di Martin Lutero all’inizio del Cinquecento e a quanto poco sappiamo delle migliaia di persone che aderirono alla fede protestante, delle loro lotte, dubbi e vittorie rispetto a un messaggio evangelico che comportava, in molti casi, il rischio del carcere, del pubblico scherno e del patibolo.
Eppure, il successo e la sopravvivenza dei principi del Protestantesimo sono debitori ai tanti sconosciuti che fecero la loro parte, che sperimentarono una conversione tale da determinare il resto della loro vita.
Il piano di Dio nella storia dell’umanità è spesso andato avanti da un lato grazie a dei leader carismatici, che si trovavano in una posizione di autorità e responsabilità, e dovevano dare l’esempio, e dall’altro dai molti che, ognuno nel proprio piccolo, si affaticavano per qualcosa di eterno. Il valore della conversione dell’uomo comune è dunque inestimabile.
Il valore del collettivo nella chiesa apostolica
Paolo di Tarso è forse l’eroe della fede per eccellenza, un uomo che fu in grado di esercitare un’influenza straordinaria sulla chiesa nascente. La chiamata divina ricevuta sulla strada verso Damasco, narrata nel capitolo nove degli Atti degli Apostoli, è diventata il paradigma della conversione nell’immaginario comune.
Un cambiamento di pensiero e di azione talmente illogico nella sua radicalità che risulta arduo indagarne le cause più profonde.
“Dio […] si compiacque di rivelare in me il Figlio suo perché io lo annunciassi agli stranieri” scrisse egli stesso nella lettera ai Galati (1:15-16).
Quello che spesso si tende a ignorare è che Paolo non avrebbe potuto portare avanti il suo compito di evangelizzazione senza l’aiuto spirituale e concreto di decine e decine di persone di cui sappiamo pressoché nulla. Timoteo, Tito, Silvano, Febe, Aquila e Priscilla e tanti altri compaiono nelle lettere scritte da Paolo, ma è impossibile stendere un loro profilo biografico, per il semplice ma fondamentale fatto che abbiamo pochissime informazioni sul loro conto.
Qualcuno aveva avuto una madre cristiana, altri vissero la sofferenza di un esilio, altri ancora soffrirono gravi malattie durante i continui viaggi da una comunità all’altra. Non abbiamo i resoconti delle loro conversioni. Com’era la loro vita prima di accettare il messaggio del Vangelo?
Come fu trasformato il loro carattere? Ciò che conosciamo però è sufficiente: i frutti prodotti dalla loro conversione furono determinanti per la salute spirituale e la crescita numerica delle comunità cristiane nei trent’anni che seguirono la scomparsa di Gesù dalla terra.
Tutti importanti, nessuno indispensabile
Solo adesso che sono trascorsi millenni possiamo renderci conto della tremenda responsabilità che gravava sulle spalle di questi credenti: ad Efeso, Corinto, Roma, Filippi, i gruppi di cristiani avevano bisogno di tutto, dato che non esisteva nessuna organizzazione missionaria che raggiungesse capillarmente tutte le province dell’Impero romano.
Non c’erano distribuzioni di vangeli agli angoli delle strade e nelle piazze, niente musica cristiana o prediche online a disposizione 24 ore su 24, e tanto meno era possibile informarsi della salute fisica e spirituale di qualcuno con una semplice telefonata.
L’unico ambito per mostrare il valore della propria conversione era quello della relazione personale. “Siate miei imitatori, come anch’io lo sono di Cristo”, scriveva Paolo ai cristiani di Corinto (1 Corinzi 11:1), ma in realtà tutti i suoi collaboratori rispettavano il medesimo standard.
Siamo abituati a pensare che Paolo fosse un gradino sopra tutti gli altri: in parte questo è vero, data l’autorità apostolica assegnatagli direttamente da Dio. Tuttavia, senza il sostegno, la collaborazione e la fiducia di molti uomini e donne comuni su cui faceva affidamento, anche il “grande” Paolo non ce l’avrebbe fatta. Non è un caso che in due epistole distinte e indirizzate a due chiese diverse, egli pensi alla chiesa come ad un corpo dove tutti sono importanti allo stesso modo.
Dio dona valore senza favoritismi
Può capitare di pensare che la propria conversione, seppur profonda e genuina, serva a poco; le complessità della vita, o le frustrazioni rispetto a determinate aspirazioni o desideri rischiano di indurre in noi la convinzione di essere soltanto delle persone comuni, ordinarie. Ora la falsità di questa affermazione non riguarda il fatto di essere ordinari, quanto piuttosto la convinzione di non avere un valore specifico.
“Ma non è così tra di voi; anzi, chiunque vorrà essere grande fra voi, sarà vostro servitore; e chiunque, tra di voi, vorrà essere primo sarà servo di tutti. Poiché anche il Figlio dell’uomo non è venuto per essere servito, ma per servire, e per dare la sua vita come prezzo di riscatto per molti” (Marco 10:43-45).
Servi il tuo prossimo in modo comune e non straordinario? Nel silenzio e non sotto i riflettori? Non scoraggiarti se ti senti “uno come i tanti” perché se alzi lo sguardo nel tuo presente e verso il passato ti renderai conto di essere in ottima compagnia. Molto dipende dalle lenti con cui osservi la tua vita. La montatura, cioè il nostro essere ordinari umanamente parlando, rimane la stessa ma se le lenti sono quelle che ti identificano come uomo o donna in Cristo allora tutto cambia e i parametri si capovolgono.
La conversione dell’uomo comune è di grande valore agli occhi di Dio!
Gianmarco Giuliani