Capita spesso di ascoltare discorsi che mettono in evidenza la necessità di “insistere nella preghiera” perché questa sarebbe l’attitudine che Dio gradisce e da cui dipende l’esaudimento delle nostre richieste.
A volte capita addirittura di sentir esprimere il dubbio che il motivo per cui Dio non ha esaudito una specifica richiesta sia riconducibile a una preghiera non sufficientemente insistente. Nella maggior parte dei casi si tratta di un uso improprio del termine “insistenza”, ma in altre circostanze tali osservazioni sono purtroppo l’espressione di un vero e proprio errore concettuale.
Il testo biblico che viene generalmente citato in questi casi è la parabola riportata nel capitolo 18 del Vangelo di Luca, che invita a “pregare sempre e non stancarsi”.
Cosa significa Luca 18:1-8?
Il brano in questione racconta di una donna la quale, proprio grazie alla sua insistenza, ottiene una risposta da un giudice impietoso che, pur di non essere ulteriormente importunato, finalmente acconsente alla sua richiesta.
È necessario innanzitutto considerare che si tratta di un giudice che “non temeva Dio e non aveva rispetto per nessuno” (Luca 18:2). Appare quanto meno inopportuno, se non blasfemo, supporre che un simile personaggio possa anche solo vagamente ricordare il nostro Padre Celeste, ricco in amore e misericordia.
L’intenzione della parabola non è certo quella di paragonare Dio ad un giudice malvagio che si degna di rispondere solo perché stanco dell’insistente richiesta; piuttosto è quella di contrapporre il carattere di Dio a quello del giudice qui rappresentato, inducendo così a una riflessione: se perfino un giudice impietoso finisce col cedere a pressioni insistenti e fastidiose, tanto più il Giusto Giudice sarà disposto a rispondere “con prontezza” (Luca 18:8) alle preghiere di coloro che ripongono la propria fiducia in Lui!
Infatti, Gesù stesso dichiara nel Vangelo di Matteo 6:8: “il Padre vostro sa le cose di cui avete bisogno, prima che gliele chiediate”; se queste sono nella Sua volontà, quindi, è pronto a donarle sempre e soltanto per amore.
La parabola del giudice malvagio, che da alcuni viene erroneamente interpretata come un invito a insistere nel presentare le nostre richieste fino a quando Dio non accondiscende alle nostre suppliche, mette dunque in evidenza proprio il contrario e cioè quanto alle volte sia inappropriato assumere questo atteggiamento nei confronti del nostro Dio.
D’altronde la Bibbia in nessun caso invita a insistere nella preghiera, piuttosto riporta numerose esortazioni alla perseveranza. A tal proposito puoi leggere anche l’articolo “La preghiera: accettazione fatalistica o collaborazione attiva?” nel quale abbiamo già citato la risposta che Dio riserva al profeta Geremia rimproverandolo per la sua insistenza: “non insistere presso di me” (Geremia 7:16).
Attenzione: la differenza tra l’insistenza e la perseveranza è molto più che una questione di terminologia! È una differenza sostanziale: riguarda l’attitudine interiore.
L’Insistenza
Il verbo “insistere” significa protrarre un’azione con caparbietà al fine di raggiungere lo scopo prefissato. L’insistenza è propria di chi, ostinandosi, continua a fare pressione senza fermarsi a valutare l’opportunità della propria posizione. Equivale in buona misura all’atteggiamento di chi continua a tempestare di colpi una porta che tarda ad aprirsi, senza neppure prendere in considerazione l’ipotesi che quella porta potrebbe non aprirsi mai e soprattutto che sarebbe meglio lasciarla chiusa.
Quando in preghiera poniamo l’attenzione sul dono più che sul donatore, finiamo con l’assumere proprio questo atteggiamento. Ci illudiamo che la nostra insistenza possa impietosire e convincere Dio a darci quello che desideriamo, senza accorgerci che la nostra preghiera diventa espressione di egocentrismo piuttosto che di fede. Insistiamo affinché Dio ci conceda ciò che è giusto, necessario e soprattutto urgente secondo il nostro punto di vista senza neppure prendere in considerazione l’ipotesi che la Sua volontà possa non coincidere con la nostra.
La Perseveranza
Il significato del verbo “perseverare” indica invece la costanza di un atteggiamento sostenuto da propositi virtuosi. La perseveranza è un’attitudine che non è dettata dal desiderio spasmodico di raggiungere l’obiettivo ma è basata su solidi principi. È motivata da una profonda convinzione interiore che non muta a seconda delle circostanze o degli stati d’animo. Perseverare significa quindi conservare la giusta attitudine nella consapevolezza di essere sulla strada giusta malgrado gli eventuali ostacoli.
La preghiera perseverante non si concentra unicamente sull’obiettivo da raggiungere ma continua a confidare in Dio, nonostante il perdurare dell’attesa.
Non esprime il timore di non essere esaudita e non si prefigge di convincere Dio a rispondere o perfino a cambiare idea, ma manifesta la speranza di chi sa di poter contare su un Padre che si compiace di fare del bene ai propri figli. Non è l’impaziente richiesta di chi si sforza di essere convincente, ma è la fiduciosa attesa di chi sa di poter contare sull’amore e sulla fedeltà di un Padre saggio e premuroso che non tarderà nei suoi confronti (Luca 18:7). Si concentra sul donatore fino a ridimensionare il valore del dono. È la preghiera che trova nella comunione con Dio e nella dipendenza da Lui il ‘riposo dell’anima’, in attesa che si realizzi la Sua volontà.
Una Distinzione Necessaria
La differenziazione tra le due attitudini non è certamente nuova. Pur essendo sottintesa nella prospettiva biblica, una netta distinzione tra i due termini viene sottolineata sia nei siti internet che analizzano la lingua italiana sia in quelli che trattano temi di ordine morale e sociale. Oltretutto nel web non sono rari i motivational quotes che incoraggiano alla perseveranza e mettono in guardia dall’insistenza. È evidente che in qualità di credenti dovremmo avvertire la responsabilità di utilizzare questi vocaboli in modo appropriato per non dare adito a pericolosi fraintendimenti.
Al di là dell’uso improprio del termine, c’è poi da considerare l’ipotesi che l’enfasi che viene data all’insistenza possa derivare da una visione non propriamente biblica della preghiera… e di Dio! Il nostro modo di pregare infatti non può prescindere dal concetto che abbiamo di Dio e del rapporto che Egli intende impostare con ciascuno di noi.
La preghiera della fede procede da una convinzione: Dio ci ama. Non siamo di fronte ad una divinità pagana a cui vanno estorti i favori. Dio è pronto a benedirci e ad esaudire le nostre richieste non perché insistiamo caparbiamente o perché lo meritiamo, ma semplicemente perché desidera il nostro bene.
Dio è fedele: non delude mai chi spera in Lui, per questo invita a non scoraggiarci ad avanzare a Lui le nostre richieste con piena fiducia nella Sua promessa: “Avverrà che, prima che m’invochino, io risponderò; parleranno ancora, che già li avrò esauditi” (Isaia 65:24).
Questo non vuol dire che Dio sia tenuto a intervenire sempre con l’immediatezza che noi ci aspetteremmo o secondo le modalità che noi vorremmo, ma certamente la Sua risposta giungerà puntuale e consisterà sempre in una benedizione. È questa la convinzione che ci porta a dichiarare: “Non la mia volontà, ma la Tua volontà sia fatta” (Luca 22:42).
Valeria Cataldo