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Rivolgersi ai medici significa non avere fede?

medico che visita una paziente

 

Era il 21 febbraio 2020: sono passati quasi tre anni dal giorno in cui tutti scoprimmo che quella misteriosa infezione virale proveniente dall’Oriente, denominata “Covid”, aveva raggiunto anche il nostro Paese. La comunità scientifica e, ancor più, l’opinione pubblica, inizialmente si divisero rispetto alla valutazione della gravità della situazione fino a quando, l’8 marzo dello stesso anno, un nuovo ed inaspettato termine comparve sui giornali, nelle televisioni e, soprattutto, sulla bocca di ognuno di noi: lockdown.

 

Sembra ormai un’era lontana, molte parole sono state spese e, anche all’interno delle realtà evangeliche – come nell’intera società – non è mancato il dibattito, talvolta acceso (e talvolta discutibile?), sulle scelte di sanità pubblica che i governi hanno messo in campo per la tutela della collettività. Tuttavia sembra esserci un elemento che è stato in grado di mettere d’accordo tutte le posizioni e rappresentare, in qualche modo, un minimo comun denominatore nelle percezioni della popolazione: il ruolo determinante dei professionisti sanitari.

 

Nelle corsie degli ospedali e nelle case, l’immagine di un esercito di medici ed infermieri, armati di tute, mascherine, abnegazione e conoscenze via via più chiare provenienti dalla comunità scientifica, ci ha accompagnato nelle fasi più cruciali di questa pandemia, restituendoci la sensazione di una schiera che ha tentato di arginare, quasi fisicamente, l’avanzata di un’ondata virale senza precedenti. In questo articolo abbiamo pubblicato le testimonianze di alcuni professionisti sanitari cristiani che hanno affrontato in prima linea la pandemia.

 

Tuttavia, sebbene sia ben radicata questa consapevolezza, permane nella visione di alcuni cristiani una certa difficoltà nel conciliare la dottrina biblica della guarigione divina, con l’affidamento del credente alla dimensione della cura umana. Alcuni (pochi, in realtà) si pongono apertamente in contrasto con la possibilità stessa di assumere terapie farmacologiche o ricorrere a consulenze mediche, identificando tali comportamenti come un’evidente assenza di fede soltanto di Dio; altri, più sommessamente, pur ricorrendo per necessità alle cure “terrene”, vivono tuttavia poco serenamente questa scelta, percependo sentimenti che oscillano tra il disagio ed il senso di colpa.

 

Una questione storica

 

Affermare che la fede cristiana sia incompatibile con l’approccio medico ed ospedaliero è, prima di tutto, un forte paradosso storico dal momento che fu proprio il primo cristianesimo a formalizzare in modo strutturato l’assistenza fisica degli infermi come espressione della carità divina. Si trattava di una cura rivolta alle esigenze del corpo malato attraverso le conoscenze mediche del tempo, al quale era sempre correlata una cura dello spirito. Molte sono le testimonianze storiche che, nei primi secoli della Chiesa, dimostrano come gli ospedali moderni nacquero dopo che donne e uomini iniziarono ad utilizzare le chiese stesse per l’assistenza dei malati. Un esempio tra i tanti è quello di Fabiola, una credente romana che nel 390 iniziò a raccogliere tutte le persone sofferenti trovate per le strade, prestando loro le attenzioni di natura sanitaria.

 

Diversi studiosi arrivano persino a sostenere che le radici della medicina moderna siano da ricercare proprio all’interno della prospettiva giudaico-cristiana, dal momento che storie come quella di Giobbe o del cieco nato che incontrò Gesù sovvertirono la visione popolare della malattia come punizione e disinnescarono il concetto di allontanare l’infermo bensì, al contrario, promossero il tema di avvicinarsi alla persona sofferente, mettere le proprie mani su di lui (come Gesù con il lebbroso), sostenerlo nell’anima – attraverso le conoscenze spirituali – e nel corpo – attraverso le conoscenze terrene.

Uno dei più importanti storici della medicina italiani, Giorgio Cosmacini, afferma «era tuttavia dal Medioevo non pagano, ma cristiano, che venivano emergendo concetti e valori di grande rilevanza per la medicina. Già il cristianesimo delle origini aveva influito positivamente sulla pratica del curare. Lo stesso evangelista Luca era un “diletto medico”, emulo di Cristo nel risanare il fisico quanto lo spirito»[1].

 

Vi è perciò una questione storica piuttosto chiara che può rappresentare un valido punto di partenza per condurre una riflessione ponderata sul piano del rapporto tra la fede e la scienza medica che, sin dai primi anni della Chiesa, non ha mai avvertito una contraddizione tra le parti; al contrario, il cristianesimo ha sempre intravisto nell’assistenza al malato – attraverso gli strumenti della medicina – un’occasione perfetta per dimostrare in modo pratico la misericordia alla quale Dio chiama i propri figli. 

 

Una questione biblica

 

Senza dubbio (ed è bene che sia così), una cornice storica – per quanto valida e convincente – non può rappresentare un’argomentazione sufficiente per un credente sincero che fonda la propria fede sulle Scritture: occorre rivolgersi alla fonte per eccellenza della Parola di Dio.

 

La prima domanda alla quale rispondere è se, sotto il profilo biblico, la malattia del corpo sia sempre e comunque da considerarsi una conseguenza diretta del peccato; se alla base delle alterazioni organiche che danno origine alle più disparate patologie (dal diabete al tumore) vi sia in ogni caso una variabile spirituale. Perché, se così fosse, in effetti la risposta sarebbe netta: la malattia del corpo richiederebbe necessariamente un intervento esclusivamente divino.

 

In senso assoluto, si può sostenere che questa posizione sia in parte vera. Chi crede nella Bibbia, crede infatti in un Dio che ha creato l’uomo in forma perfetta ed immortale (Genesi 1:26; Genesi 2:17) e che la morte – tanto quella spirituale quanto quella fisica – sia subentrata in questo straordinario progetto proprio a causa del peccato (Romani 5:12). In questa lettura la malattia, intesa come la manifestazione evidente del deterioramento di un organismo destinato a morire, rappresenta uno dei principali strumenti perché questa “diagnosi” si concretizzi.

 

Fatta questa premessa, secondo cui tutto ciò che corrompe la perfezione originale dell’uomo (compresa la malattia) è in estrema sintesi una conseguenza del peccato, restano davvero schiaccianti le evidenze bibliche a sostegno del fatto che l’essere umano – con la sapienza che Dio stesso gli fornisce – possa mettere in campo tutte le conoscenze mediche acquisite nel corso della storia per preservare questo “uomo esteriore che si va disfacendo” (2 Corinzi 4:16) e mantenere in salute anche il proprio corpo, che per i credenti è molto più che “massa organica”, ma il tempio stesso dello Spirito di Dio (1 Corinzi 6:19).

 

Dal già citato evangelista Luca, che l’apostolo Paolo definisce “il caro medico” (Colossesi 4:14), ai suggerimenti ed accorgimenti in materia di salute fisica che sempre l’apostolo Paolo suggerisce al giovane Timoteo attingendo dalle conoscenze del tempo (1 Timoteo 5:23). E come non citare la straordinaria immagine di quel samaritano, che di fronte all’uomo vittima di aggressione “si avvicinò, fasciò le sue ferite, versandovi sopra dell’olio e del vino…” (Luca 10:34): avrebbe mai Gesù, anche soltanto per una parabola, utilizzato un’immagine contraria alla volontà di Dio?

 

Utilizzando ancora un’immagine, sempre Gesù disse che “I sani non hanno bisogno del medico, bensì i malati” (Luca 5:31), riconoscendo con estrema semplicità e chiarezza che… i malati hanno bisogno del medico! Anche perché godere di buona salute fisica, oltre che spirituale, è il frutto di uno sviluppo equilibrato del cristiano (3 Giovanni 2).

 

Dopotutto, che l’uomo ne sia consapevole o meno, l’intelligenza e la scienza – sì, anche quelle che conducono a scoprire un nuovo farmaco – provengono dal Signore (Proverbi 2:6).

 

Una questione di consapevolezza

 

Appurato che il ricorso alla medicina è pienamente inserito in una lettura storica del cristianesimo e altrettanto pienamente conciliabile con la verità della Parola di Dio, è necessario a questo punto evidenziare un ultimo elemento di riflessione, una fondamentale cornice dentro la quale osservare l’intero argomento e che potremmo definire una “questione di consapevolezza”.

Un approccio sano a questo tema non può infatti prescindere per il credente dalla piena consapevolezza di due fattori di consapevolezza: l’onnipotenza di Dio ed il limite umano.

 

Per quanto possano progredire rapidamente, le conoscenze umane in materie di salute si scontreranno sempre con la realtà del limite. Sono sempre esistite e sempre esisteranno circostanze in cui le armi della scienza risultano totalmente spuntate e inefficaci di fronte alla malattia. È vero, le nuove ricerche e scoperte infondono speranza – e noi ringraziamo Dio per questo – ma non sarà mai possibile abolire la triste espressione medica “non c’è più niente da fare”.

 

Lo sapeva bene quella donna che si fece spazio in mezzo alla folla per toccare il lembo della veste di Gesù, una donna “che molto aveva sofferto da molti medici e aveva speso tutto ciò che possedeva senza nessun giovamento, anzi era piuttosto peggiorata” (Marco 5:26).

 

La prima consapevolezza da sottolineare per non restare delusi e che, sebbene la Bibbia non scoraggi affatto il ricorso alla medicina, quest’ultima non è esente da consistenti limiti sostanziali.

 

Tuttavia, nella vita del credente può e deve essere fermamente radicata una seconda consapevolezza, in grado di infondere speranza anche nei momenti più bui: Dio non ha limiti.

 

La Scrittura è colma di esempi che testimoniano la straordinaria onnipotenza di Dio anche sulla malattia (Giacomo 5:14-16; Marco 16:17-18; Atti 3:6). Pur avendo ben chiaro che la guarigione divina non sia un elemento automatico e sempre conseguente alla fede dell’uomo, bensì un miracolo che scaturisce dalla volontà di Dio per specifiche situazioni e per progetti più ampi della guarigione stessa (Salmo 41:3; 2 Corinzi 12:7; Giovanni 9:2-3), il credente può affrontare la malattia del corpo non soltanto approcciandosi serenamente alle cure mediche, ma anche (e soprattutto) confidando completamente nell’onnipotenza di Dio, che non conosce limiti.

 

Conclusioni

 

La malattia del corpo rappresenta uno degli aspetti più delicati dell’esistenza, perché ogni volta che ne siamo colpiti si verifica una brusca interruzione delle nostre illusioni e veniamo all’istante proiettati di fronte ad una realtà che spesso scegliamo di ignorare: siamo fragili, non siamo eterni e la sofferenza rappresenta una variabile imprescindibile del cammino terreno. Il fatto che un invisibile microorganismo sia in grado di mettere fuorigioco un individuo con tutte le sue certezze, rappresenta per tutti – anche per i credenti – un’informazione non sempre semplice da elaborare.

 

È la Bibbia stessa a riconoscere la sensibilità del tema, anche per il cristiano, quando nel corso del dialogo tra il diavolo e Dio su Giobbe si legge: “Pelle per pelle! L’uomo dà tutto quel che possiede per la sua vita; ma stendi un po’ la tua mano, toccagli le ossa e la carne, e vedrai se non ti rinnega in faccia” (Giobbe 2:4-5).

 

Ed è proprio alla luce di questa delicatezza che risulta fondamentale, nella Chiesa del Signore, che i credenti mantengano sempre un atteggiamento neutrale e non giudicante rispetto alla malattia di un fratello o una sorella (qualsiasi tipo di malattia: fisica, psicologica, psichiatrica) ed alle strade terapeutiche che l’altro sceglie di intraprendere.

 

Per quanto riguarda la presunta incompatibilità tra rivolgersi alla scienza medica e la fede in Dio, oltre a questioni storiche, bibliche e di consapevolezza si potrebbe concludere con una questione logica: così come il fatto che ognuno di noi si reca quotidianamente al lavoro per percepire uno stipendio non ci fa dubitare dell’assunto fondamentale che “Dio è Colui che provvede”, allo stesso modo rivolgersi alla scienza medica non dovrebbe mettere in discussione la profonda verità che Dio è Colui che guarisce”.

 

Qualcuno ha detto che l’ateo è quella persona che non riesce, in nulla, a vedere un miracolo. Al contrario, i credenti sono uomini e donne che – grazie alla nuova nascita – hanno occhi spirituali aperti ed allenati a vedere un miracolo in ogni cosa.

 

Sì, anche nella cura divina che avviene attraverso strumenti umani.

 

Maicol Carvello

 

[1] G. Cosmacini, L’arte lunga. Storia della medicina dall’antichità a oggi, Laterza, Bari 2009, pp. 117-118.

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